Gli Operai
La classe operaia
La guerra moderna è una sfida industriale e a farne le spese è in primis la classe operaia. In nome dello sforzo bellico si sospendono le norme legislative che regolavano il lavoro straordinario, notturno e festivo e quelle a tutela delle donne e dei minori, si intensificano i ritmi produttivi e si ripristinano le 48 ore lavorative settimanali. Nel settore metalmeccanico la norma sarà di 60 ore ma all'Alfa Romeo, dal 1940 al 1943, un quarto delle maestranze ne lavorerà mediamente 72.
La produzione bellica, ora più complessa e sofisticata, accresce la richiesta di mano d'opera qualificata, ma è richiesta anche quella non qualificata per colmare i vuoti dei richiami alle armi, mutando così anche la composizione della forza lavoro formata ora da maestranze giovanili, in buona parte di origine contadina, per le quali la fabbrica sarà occasione di maturazione e di socializzazione, oltreché di assunzione di responsabilità di fronte alle scelte che si imporranno con l'occupazione nazista e il risorto fascismo repubblicano.
A differenza degli altri Paesi belligeranti, la presenza femminile in fabbrica non registra invece incrementi significativi, sia per le lavorazioni ad alto contenuto tecnologico richieste dalla guerra moderna, sia per le diffidenze del regime che a ragion veduta - memore delle esperienze della I guerra mondiale - le ritiene veicolo di turbolenze e ammutinamenti, senza poterle neanche ricattare con la minaccia dell'invio al fronte.
L'introduzione del codice penale militare irrigidisce ancor più il pesante regime disciplinare della fabbrica, ma non riesce a contenere l'insofferenza, le infrazioni e il diffuso assenteismo con cui la classe operaia reagisce a orari e ritmi di lavoro massacranti e all'immiserimento dei già magri salari che, sempre più erosi dal vertiginoso aumento del costo della vita, si ridurranno mediamente nel 1944 a circa ¼ di quelli d'anteguerra.
La crescente avversione per la guerra fascista e i primi segnali di rivolta per condizioni di vita e di lavoro ormai intollerabili si manifestano apertamente con uno sciopero spontaneo alla Magnaghi di Turro all'indomani del bombardamento del 20 ottobre 1942 ed esplodono in forma massiccia con gli scioperi del marzo 1943, ai quali la classe operaia milanese - e sestese - partecipano compatte. Si apre da questo momento un ciclo di lotte che durerà fino all'autunno del 1944 e nel corso del quale, con la partecipazione agli scioperi del dicembre 1943 e del marzo 1944, e alla lotta partigiana, la classe operaia riconquisterà, dopo vent'anni, la propria identità e la coscienza della propria forza organizzata diventando, insieme alla fabbrica, il principale protagonista prima della lotta resistenziale e poi della ricostruzione democratica.
La centralità della fabbrica nella lotta antifascista, e la costruzione di un mito che si riverbererà a lungo nel dopoguerra, nascono dal ruolo svolto nelle battaglie per la conquista della libertà e dall'intensità del coinvolgimento nella difesa di quelle fabbriche che, nel desolato panorama di una Milano distrutta e semisvuotata, si impongono di fatto, con la loro stessa fisicità e per le energie espresse, come "i principali, se non gli unici, punti di riferimento dai quali si poteva attendere la ricostruzione materiale e la riorganizzazione della vita collettiva" (Duccio Bigazzi).